giovedì 12 luglio 2012

Guilty pleasures without guilt


Che non è l’ultimo capitolo della saga zozzona con le sfumature 

 

Sarà che in biblioteca cominciano a chiedere le letture leggere da ombrellone, sara che un po' dappertutto ci si chiede se la trilogia della 50 sfumature sia  bella o sia una bufala pazzesca, ma la questione della qualità letteraria continua ad affascinarmi.
In un post precedente (Bello come BradPitt, alla sagra di Camandona) raccontavo come, da quanto stavo leggendo, mi sembrasse difficile occuparsi di qualità senza cadere in snobismi e separare la critica letteraria dal giudizio sui lettori. Il collega Francesco Mazzetta mi faceva notare che “quello che è giusto fare sempre è giudicare le letture, cioè i libri, non i lettori”, ma qui cominciano i problemi dal momento che non ho trovato grandi elaborazioni teoriche su cosa sia la qualità letteraria, dove alberghi e come si riconosca.
Se di Alte tirature, il volume di Spinazzola, si è già detto, bisogna comunque aggiungere che né la classifica Pordenonelegge-Dedalus, che da anni stila una classifica di libri di qualità, né il volume L’indice dei libri dell’anno.La classifica di qualità dei libri del 2011, entrano nel vivo delle proprie motivazioni, rendendo chiari ed espliciti i criteri delle scelte, ma si appellano ad una generica nozione di qualità.

Ho trovato una situazione un po’ diversa, un tentativo di analizzare più da vicino e più a fondo la situazione, insieme ad una profonda consapevolezza delle ragioni di chi legge, in un dibattito che si è sviluppato negli ultimi mesi negli Stati Uniti e che prende il via da un articolo pubblicato sul New Yorker:  Easy wirters. Guilty pleasure without guilt di Arthur Krystal.
Krystal pone alla base del suo ragionamento il fatto che la distinzione fra literary fiction e genre fiction, pur continuando a sussistere, (alla prima andrebbero riconosciuti meriti letterari mentre la seconda avrebbe un ruolo di fuga dalla realtà, di evasione) stia diventando sempre meno chiara e che scrittori che un tempo venivano considerati “guilty pleasures”, cioè quelle letture che ci piacciono ma di cui un po' ci vergognamo, abbiano acquisito col tempo un status letterario.
Lev Grossman, in una interessante e puntuale risposta all'articolo apparso sul New Yorker,  (Literary Revolution in the Supermarket Isle) accoglie l'idea di diversi livelli qualitativi della narrativa che tuttavia non vanno legati a singoli specifici generi,(perché qui - dice lui - le sfumature di grigio sono molteplici)  ma si discosta completamente dalle opinioni di Krystal quando questi afferma che siamo ancora giudicati in base ai libri che leggiamo e che forse è giusto che sia così.
Per Grossman i romanzi non sono o non dovrebbero essere status symbol. Probabilmente questo atteggiamento nei confronti della lettura è legato ad una concezione puritana della vita: se non è difficile è peccato, o all'idea che qualsiasi cosa sia contaminata col commercio, come la narrativa di genere, sia automaticamente squalificato e privato di valore estetico
Infine, completamente dalla parte del lettore Gary Gutting che, in Reading and guilty pleasure, sposta l'attenzione dall'idea che vi siano libri e generi oggettivamente inferiori all'importanza delle preferenze personali del lettore.
Secondo lui molte delle discussioni sui guilty pleasure partono dal presupposto errato che la qualità della narrativa “seria” sia più elevata ma meno piacevole di forme di narrativa “inferiori”
Ma cos'è che consideriamo piacevole nella lettura? Per Krystal, come abbiamo visto, la narrativa di genere ci aiuta ad evadere dai problemi della vita quotidiana in un mondo alternativo, più eccitante, più attraente. Ma Jane Austen o Thomas Mann non ci possono forse aiutare ad alleviare le nostre preoccupazioni quotidiane tanto quanto Ken Follet o John Grisham?
Apparentemente più plausibile è l'idea che la narrativa “seria” sia meno piacevole perché richiede un maggior sforzo intellettuale per comprenderne la complessità. Ma, sostiene Gutting, chi lo dice che ciò che è difficile da leggere non sia piacevole? C'è un atteggiamento mentale completamente diverso a seconda che ci riferisca ad attività mentali o fisiche. Maratone, scalate, tennis o basket a livello competitivo sono attività decisamente impegnative ma anche estremamente soddisfacenti.
Perché non deve esserlo anche la lettura di un testo impegnativo? I lettori di narrativa di genere implicitamente riconoscono tutto questo quando ritengono che i loro libri favorite meritino lo stesso tipo di attenzioni e di analisi dettagliate che si è soliti riservare ai classici.
Insomma il libro di qualità è trasversale ai generi e lo si riconosce per la "sua capacità di ricompensare - con piacere - coloro che si adoperano per scoprire le sue ricchezze"
E già che ci siamo, perché non dare un'occhiata anche alla rubrica su NPR My Guilty pleasure, scrittori che parlano di libri che adorano ma che si vergognerebbero se fossero visti a leggerli e confessare i propri piaceri segreti?
Comincio io: ho letto libri di Carolina Invernizio, l'onesta gallina della letteratura popolare, come la definì Gramsci. E non riuscivo a staccarmene.

2 commenti:

  1. Dato che, cara Denise mi ci tiri un po' per i capelli (ma fai fatica perché tanto non ne ho...) propongo subito qualche riflessione in risposta alle tua estremamente per altro interessante disamina.
    Già all'epoca degli studi universitari mi ero soffermato su questo problema, che in fondo è il problema estetico per eccellenza: come fare per riconoscere il bello? e ovviamente vale anche per la letteratura. Il bello, imho, non ha necessariamente nulla a che fare né col facile né col difficile. Il bello è una categoria diversa, estetica, ed è improprio collegarla a categorie utilitaristiche come facile o difficile. Tanto più che facile e difficile sono categorie non assolute, ma relative alle competenze del soggetto, in questo caso del lettore. Il bello rimane bello qualunque livello di competenze si metta in gioco. Ed è proprio qui la risposta che mi sono trovato e che utilizzo quando mi capita di dover giudicare qualcosa in una recensione. Il bello è nel riuscire a comunicare/contaminare se stesso a più soggetti possibile non tanto nell'hic et nunc della contemporaneità, ma piuttosto sull'orizzonte temporale prolungato. Dracula di Bram Stoker fondamentalmente è un romanzetto horror/sensazionalistico che può tranquillamente essere proposto anche alle scuole medie tanto è basso il suo livello di difficoltà. Eppure è rimasto nella storia della letteratura non sicuramente per la qualità della scrittura quanto per il simbolo potente (ed oggi tornato pure di moda) del vampiro che ne costituisce il soggetto principale. Probabilmente è da dire qualcosa di simile per Arthur Conan Doyle.
    Per altri versi autori famosi un tempo a livello di genere come Isaac Asimov o Alfred E. van Vogt oggi sono pressocché dimenticati. Quando van Vogt morì ad Alias mi chiesero di fare un pezzo su di lui. Per certi versi avrei potuto tranquillamente scriverlo perché da ragazzino era uno dei miei autori preferiti, ma da adulto mi sono accorto che ben poco di quanto avevo letto di lui mi era rimasto dentro e ne avrei scritto quindi cose non eccelse, e non era il caso essendo lui appena morto. Per altri versi invece Philip Dick, condannato alla scarsa notorietà ed alla miseria da vivo diventa ogni giorno che passa un autore con cui fare i conti per decifrare la modernità attraverso le sue produzioni letterarie e soprattutto simboliche.
    Alla fine della fiera dunque il critico non può far altro che "scommettere" (certo, utilizzando le proprie competenze di esperto del settore) su cosa è bello, ma il giudizio definitivo non potrà che darlo la storia.
    (E così ti svelo che sono e rimango fino in fondo hegeliano...) ;)

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  2. Sono d'accordo a mettere assieme lettura e gratificazione, ricerca dell'appagamento, se come si fa qui si ricorda che l'appagamento non deve per forza essere un risultato immediato ma può essere a volte maggiore se è il frutto di uno sforzo particolare. Il paragone con lo sport è illuminante per spiegare perché qualcuno è "appagato" anche da cose giudicate (dai più) "difficili", faticose, mentre altri ne sono spaventati e si rivolgono al "facile". È una scelta che dipende dai momenti (della vita, della giornata). Perché ogni lettura è una specie di "patto" tra autore e lettore dove anche il lettore è chiamato a fare almeno un po' di "fatica" per dare anima alla lettura, immaginarsi la storia, sforzarsi di comprendere i personaggi ecc. Il "patto" quindi riesce solo se il lettore crede nell'appagamento che verrà da questo sforzo, cioè se pensa che lo sforzo lo premierà. Compito dello scrittore è "convincerlo" a fare lo sforzo e che questo porterà una ricompensa. C'è chi pensa che bisogna dare fiducia allo scrittore per almeno 99 pagine in cui cercherà di "convincerci" che è una buona cosa passare del tempo con lui e continuare oltre e c'è invece chi non ha questa pazienza, vuole una gratificazione immediata e dà allo scrittore 1 o 2 pagine per "convincerlo". In questo giocano un grosso ruolo la pazienza (se sono impaziente l'incipit della Recherche mi annoia), le capacità intellettuali (devo capire quello che leggo). E visto che tra i guilty pleasures possiamo metterci anche il junk food, allora potremmo anche paragonare certa letteratura alle patatine: quelle grasse, salatissime, stipate nei sacconi da supermercato, probabilmente radioattive e cancerogene, ma quando li abbiamo aperti non riusciamo a smettere e magari ce ne vergogniamo prima di tutto con noi stessi? Eppure vuoi mettere comprarsi e cucinarsi dei bei vegetali sani? Ma c'è chi preferisce le patatine cancerogene. Solo che guastano lo stomaco. Ecco: la James forse è una di quelle produttrici di sacchi di letteratura-patatine che ci attirano e non si preoccupa delle conseguenze sul nostro stomaco. Insomma: parlare di guilty pleasures nel caso delle Sfumature & Co. le fa apparire come lo specchio della cattiva coscienza del lettore con le dita unte. E Carolina Invernizio? Anche lei sacchetto di patatine bisunte? Perché no? Del resto la diatriba sulla narrativa di qualità è nata proprio all'inizio dell'età contemporanea, quando nasce anche la letteratura di massa e quella cosiddetta "colta" si sente attaccata. È una specie di lotta di classe letteraria. Già negli anni '30 dell'800 il grande critico francese Sainte-Beuve parlava di "littérature industrielle" per bollare la letteratura popolare dei feuilletons prodotti in serie. Solo che lui lo diceva a proposito di Balzac, che invece da lì a qualche decennio sarebbe stato considerato un monumento della letteratura francese. Quindi? Quella di Sainte-Beuve era un tipico caso di snobismo letterario? I gusti cambiano e insieme a loro anche i giudizi della critica? Magari un francese direbbe che solo loro, i maestri delle frites, possono permettersi di fare con stile sia le patatine fritte sia la "littérature industrielle". Non la James. Non a caso la James è stata tradotta in francese solo nell'autunno 2012 e non ha le vendite che ha avuto in Italia. Un'occasione in più per meditare sull'"eccezione francese", e lasciar perdere "guilty pleasures" e patatine fritte, per riflettere invece sullo snobismo letterario, cosa significa avere classe e a quali conseguenze portano le lotte di classe nella letteratura.

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