domenica 3 giugno 2012

Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!


Qualche anno fa, sopra l’appartamento in cui vivevo, abitavano due persone, fratello e sorella che passavano la giornata recitando, più volte al giorno, il rosario. Li sentivamo soprattutto d’estate, con le finestre aperte, rispondersi da una stanza all’altra. Verso sera, poi, uscivano,  a capo chino, in fila e raggiungevano il vicino duomo per la messa. Un giorno incontrandoli, così curvi, ad occhi bassi, senza rispondere al nostro saluto, mia figlia, con l’acutezza propria dei bambini, commentò: “Loro pregano, pregano, ma non sanno di che colore è oggi il cielo”
Ho ripensato ai miei due vicini, l’altro giorno, quando ho incontrato due dei più fedeli lettori della biblioteca, marito e moglie. Stessa postura, capo chino ed occhi bassi, hanno a malapena risposto al mio saluto. E lo stesso succede quando vengono in biblioteca: scambi coi bibliotecari ridotti al minimo ed un solo grande interesse: i libri. Sono lettori da oltre 100 prestiti a testa l’anno, hanno un’attenzione puntualissima al mercato editoriale e fanno uso di un’ampia serie di servizi della biblioteca: dalla prenotazione al prestito interbibliotecario, alla richiesta di prestito da casa con la quale spesso si “accaparrano” le novità non appena appaiono catalogate in opac. Eppure in anni e anni neppure una parola che non fosse strettamente necessaria e funzionale al loro scopo, non una frase di apprezzamento o un giudizio negativo su un libro appena consegnato, non un suggerimento ad un lettore vicino, nulla.
E siccome da un po’ di tempo sento parlare sempre più spesso e, confesso, con un certo fastidio, di biblioterapia, di libroterapia, di libri come medicina che fanno guarire, visto che si moltiplicano incontri, seminari, corsi che propongono il libro come panacea e che fioriscono pubblicazioni che prescrivono libri come pillole con tanto di bugiardini,  mi è capitato di pensare a queste due persone come al  rovescio della medaglia, associandole (per carità, probabilmente in maniera del tutto arbitraria) all’idea che i libri possano anche far ammalare.
Oggi su La lettura del Corriere della Sera, un articolo di Mariarosa Mancuso, Curarsi con i libri, mi fa capire che il mio senso di fastidio è condiviso.
Fastidio per una idea di lettura che deve essere funzionale, servire a qualcosa: cambiarci la vita, migliorarci, elevarci spiritualmente, adesso anche curarci. Fastidio per un’idea di lettura prescritta da altri, da chi detiene il sapere, o il potere. E’ impegnativo accostarsi a un libro caricandolo di tutte queste aspettative. Possiamo leggere con lo stesso atteggiamento che abbiamo quando prendiamo la tachipirina e aspettiamo che cali la febbre? E se non succede niente? Raddoppiamo la dose di pagine lette?  Passiamo ad una lettura antibiotica o meglio una omeopatica? Saremo incurabili? Chiediamo un consulto?
Mi convinco sempre di più che solo un atteggiamento laico, meglio, come dice Luca Ferrieri, senza fideismi e senza finalismi, può giovare alla  lettura. Solo considerando la lettura come una attività normale (e sarebbe bello vedere nei nostri film o nelle nostre serie televisive ogni tanto una casa con una libreria, qualche attore con un libro in mano, cose così, che nella vita di tutti giorni succedono), senza implicazioni salvifiche o terapeutiche, sarà possibile recuperare il piacere di leggere.
Poi magari i libri a qualcuno salveranno la vita, a qualcun altro leniranno ferite e a qualcun altro ancora serviranno per passare meglio il tempo in attesa del regionale delle 17.38.
Insomma lasciamo la biblioterapia agli psicanalisti, e restituiamo alla lettura la libertà. Anche libertà di chiudersi in casa a leggere e leggere senza sapere di che colore è oggi il cielo

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