Su il Post c’è un bell’articolo, Il profumo della carta. L’autrice,
Chiara Lino, si chiede quanto debba costare, quale sia il prezzo giusto di un
ebook. Nel porre la domanda su twitter è nato un botta e risposta con alcuni
rappresentanti della casa editrice Neri Pozza che vi consiglio vivamente di
andare a leggere. Non cercatelo su twitter, però, perché pare che per una
oscura politica aziendale tutti gli
scambi vengano periodicamente cancellati, ma qui.
La tesi è nota e un po’ vecchiotta: i prezzi sono alti per
difendere la qualità.
Ma non è questa la
parte più interessante. Quello che veramente illumina sull’atteggiamento e le
posizioni di certa editoria sono l’arroganza, la spocchia e la maleducazione
che contraddistinguono i tweet di Neri Pozza.
Alla giornalista sono state date risposte come “non vogliamo trattare la
letteratura come pummarole a basso prezzo”, “non vendiamo libri a meno di due
pummarole”, e ad un ulteriore richiesta
di spiegazioni, “vada in una libreria, è un bel posto, sa, in cui le
spiegheranno tutto con calma”
All’articolo sul post seguono vari commenti, fra i quali uno
di Giuseppe Russo, direttore editoriale di Neri Pozza, che spiega l’accaduto in
questo modo
Deve preliminarmente sapere che i suoi interlocutori NP in Twitter sono giovani che hanno così a cuore il progetto editoriale della casa editrice da difenderlo con irruenza non sempre controllata. Io non avrei usato gli stessi toni, anche se naturalmente condivido il contenuto delle loro affermazioni in toto. (…) Poiché però lei ha usato sempre un tono civile e cortese, e mi sembra interessata davvero a comprendere la nostra posizione su prezzi e ebook, eccomi qui con alcune mie considerazioni. Vi è, a mio parere, alla base della forte contrapposizione probabilmente una differenza, per usare un termine in disuso, “ideologica” non confessata: i giovani interlocutori NP divorano i libri di critica della modernità, e probabilmente per lei e i suoi altrettanto giovani amici la modernità con tutte le sue innovazioni va invece abbracciata in pieno.
In Veneto liquiderebbero il commento di Russo con un bel “l’è
peso el tacon del buso”.
Non è una questione di irruenza giovanile ma di qualità,
parola di cui la casa editrice si fa vanto e che pertanto dovrebbe
contraddistinguerne tutti gli aspetti e di professionalità, parolone il cui
elevatissimo utilizzo è inversamente proporzionale alla sua applicazione. Twitter non è obbligatorio ma non è un
simpatico giochino con cui prendere a schiaffoni i lettori, bensì uno strumento
di comunicazione con alcune regole precise.
E ancora Russo elargisce considerazioni in virtù del fatto
che Chiara Lino ha usato un tono civile e cortese. E se per suo carattere
personale, per la difficoltà ad articolare concetti in pochi caratteri fosse
stata un po’ brusca, non sarebbe stata degna di considerazione?
Insomma sarebbe un po’ come se io, che faccio la
bibliotecaria e detesto i libri di Baricco (non ci posso fare niente, è più
forte di me, non li reggo proprio) tutte le volte che me ne chiedono uno
cominciassi a strillare “questa è una biblioteca teniamo letteratura, non
pummarole, se ne vada al supermercato!”. O se rispondessi solo alle persone che
mi si rivolgono con tono cortese.
E poi c’è la questione giovanile e “ideologica”. Da una
parte i critici della modernità e dall’altra i giovani che della modernità
abbracciano in pieno le innovazioni. (Su questo leggetevi anche il commento di Iscarlets che mette in evidenza alcuni nodi fondamentali)
Ma su quali basi Russo dice queste cose? Ha dati,
statistiche, numeri che confermino questa
sua teoria? Mi piacerebbe sapere chi acquista e utilizza i device, se sono una
questione generazionale. Circa un anno fa Renzo Ginepro, direttore commerciale
di Adelphi, sosteneva praticamente l’opposto (se ne parlava qui e qui). E, in ogni caso, porre la
questione in questi termini così limitanti non vuole forse dire pregiudicarsi delle
fette di mercato?
Insomma non solo twitter non è obbligatorio, non lo è
neppure produrre e-book. Certo che se si decide di farlo bisognerebbe provare a farlo anche per venderli e non arroccandosi su posizioni di chiusura e di rifiuto.
Intanto il 6 settembre scorso 451 intellettuali, editori, operatori del settore hanno firmato l'appello Le livre face au piège de la marchandisation, sbrigativamente tradotto da Repubblica "Salviamo i libri dal mercato 2.0" L'appello è come i soliti appelli, uno sguardo nostalgico al passato, una avversione decisamente forte alla "macchina del progresso cieco" (E i commenti dei lettori non sono stati teneri: c'è chi ha fatto riferimento alla non verdissima età di alcuni dei firmatari e chi, più sbrigativamente li ha chiamati zombi). C'è anche però, e questo mi sembra decisamente interessante, una chiamata ad unirsi per difendere innanzitutto la qualità, la dignità e la remunerazione del lavoro culturale e per costruire e progettare insieme.
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